di Adriano Amendola Fin dal XIV secolo gli Orsini si insediarono a Roma e gli aristocratici esponenti, capitani di ventura e porporati, si distinsero per le loro propensioni al vivere cortese commissionando opere d’arte e allestendo dimore di particolare pregio nelle zone più importanti dell’Urbe, tra piazza Navona, Montegiordano e Campo de’ Fiori. Lo scandaglio d’archivio, compiuto senza preconcetti, si è rivelato essenziale per la conoscenza della committenza familiare, consentendo di ricostruire episodi ignoti e di rimeditare su argomenti che si ritenevano ormai assodati. Il cardinal Giordano Orsini può considerarsi il primo mecenate di rilievo. Elevato alla porpora nel 1405 da Innocenzo VII, Giordano seppe mantenere nell’avvicendamento dei pontefici Martino V e Eugenio IV saldi rapporti con il mondo curiale per la sua condotta politica e riconosciuta cultura. Intorno al 1432 in una sala del palazzo di Montegiordano l’Orsini fece realizzare un vasto ciclo di affreschi raffiguranti Uomini illustri a Masolino da Panicale, artista toscano allora impegnato nella decorazione della cappella Castiglione in S. Clemente. L’opera, perita nell’incendio di Montegiordano del 1485 ad opera dei Colonna, ma conosciuta attraverso disegni e codici (fig. 1), era composta da 350 figure su più registri a formare una cronaca universale; per le sue caratteristiche è ancora oggi considerata uno dei più importanti cantieri del primo Rinascimento cui concorsero certamente altre personalità artistiche di rilievo. Pochi anni dopo l’incendio di Montegiordano, conclusa la sanguinosa parentesi del pontificato di Alessandro VI Borgia che vide Orsini, Colonna e Savelli mettere a ferro e fuoco la città al grido di «Orso! Orso! et Colona», Gian Giordano, figlio di Gentil Virginio Orsini signore di Bracciano, condusse la famiglia al potere grazie al matrimonio con Felice della Rovere, figlia di papa Giulio II. A questo periodo risalgono i contatti con Donato Bramante come si evince da una stima, emersa tra le ricevute di casa, che permette di aggiungere un importante tassello alla conoscenza dell’attività dell’architetto in un periodo che finora sembrava non poter contemplare altro, in quanto saturo di impegni, ovvero il 1508. L’anno coincide con un momento di fervente lavoro per l’architetto al servizio del Della Rovere; molti sono i cantieri noti, tra i quali il rettifilo di via Giulia dove diede inizio al Palazzo dei Tribunali e all’attigua chiesa di S. Biagio, i lavori alla rocca di Viterbo e, nel dicembre, la fortezza a mare di Civitavecchia. Nel documento, datato 20 luglio 1508, è stimato l’impegno del non meglio conosciuto Domenico fiorentino scultore da Menicantonio de Chiarellis, che in calce si firma «menicho ātonio dechiarelli Schultore» e si definisce capo mastro e soprastante delle fabbriche del pontefice Giulio II (fig 2). Come si apprende dalla nota, Domenico fiorentino fu chiamato a realizzare stipiti di porte e finestre, peducci e altro per il palazzo di Isola, ovvero Isola Farnese, dove si era recato Menicantonio «per chomessione de bramāte Ingiegniere de papa Julio». La frase non lascia alcun dubbio e permette di riconoscere l’esecutore del progetto del palazzo Orsini di Isola in Donato Bramante, attribuzione vagliata non solamente alla luce della carta d’archivio, ma anche grazie alla tipologia di intervento edilizio. Il portale è di grande interesse in quanto, oltre a essere archivoltato, è fatto «abūgnia», partitura adoperata da Bramante in molte fabbriche e, significativamente per il nostro caso studio, nel basamento del Palazzo dei Tribunali a via Giulia e nella Porta Giulia o Julia in Vaticano, posta all’esterno dei corridori orientali del Belvedere. I conci così lavorati conferivano maggiore solidità all’ingresso della rocca-palazzo-casa la quale, per quanto situata su una rupe, aveva necessità di difesa data l’instabilità politica del periodo che portò in poco meno di un ventennio alla discesa dei Lanzichenecchi e al terribile Sacco di Roma (fig. 3). Al versante occidentale, dunque sul lato opposto a quello di ingresso, erano destinate due finestre definite «incroce», altrimenti dette guelfe, caratterizzate dal vano rettangolare scompartito da una croce latina. La scelta operata da Bramante si può circostanziare per la necessità di mantenere solida la tessitura muraria di quella porzione di palazzo. La costruzione, definita dai computisti «casa», si situa tra il podere suburbano e il castello, adatto a brevi soggiorni durante la stagione mite caratterizzato dall’assenza di spazi aperti fruibili come giardini e terrazze. Nel succedersi delle generazioni i rapporti con gli artisti rimasero privilegiati. Paolo Giordano I (1541-1585) con la moglie Isabella I de’ Medici intorno al sesto-settimo decennio del Cinquecento avevano istaurato un saldo legame di amicizia con il pittore Jacopino del Conte, retribuito anche con grano e vino per i suoi lavori, com’era in uso in contesti familiari. Nel 1560 l’Orsini gli donò un terreno e una dimora verso Trinità dei Monti - più precisamente una vigna con un piccolo casale posto tra l’attuale via della Mercede e via di Sant’Andrea delle Fratte, confinante con l’ospedale di Sant’Andrea delle Fratte (fig. 4) - in cambio delle «molte fatighe fatte per noi in compiacerci de molti eccellenti ritratti così della persona nostra come anche di nostri maggiori et altri». Uomo di grande spessore intellettuale, spinto da un’innata curiosità, volitivo e dotato di un certo egocentrismo, il duca Paolo Giordano II Orsini, nipote dell’omonimo avo, fu uno dei più importanti collezionisti europei della prima metà del diciassettesimo secolo, grazie a una spiccata sensibilità verso le arti (fig. 5). Fonti importanti come Giulio Mancini, Francesco Scannelli e Giovan Pietro Bellori, insieme alle carte d’archivio, ci hanno tramandato la consistenza della raccolta negli anni della reggenza di Paolo Giordano II o immediatamente dopo la sua morte, ricordando la presenza di statuaria antica, dipinti e oggetti del mondo naturale. La storiografia recente gli ha attribuito gli esborsi ai pittori Spadarino, Agostino Ciampelli e Simon Vouet, all’architetto Vincenzo della Greca, al medaglista Marco Naro. Riesaminando la contabilità più approfonditamente si è potuto stabilire però che il committente era di fatto monsignore Giuseppe Acquaviva, arcivescovo di Tebe, imparentato con i Caetani, le cui carte sono confluite nell’Archivio Orsini. L’Acquaviva, come dichiarato nelle note contabili, abitava nel palazzo «del S.r Duca d’Atri mio nipote», ovvero quello che diverrà Palazzo Sacchetti a via Giulia, e nulla ha a che vedere con Paolo Giordano II. Si è così potuto riconoscere in Giuseppe Acquaviva un nuovo collezionista di Simon Vouet al quale durante il soggiorno romano, già nel dicembre 1623, a sei mesi dall’elezione al soglio pontificio di Urbano VIII, sono richiesti un ritratto del papa e quello del cardinal nepote Antonio Barberini. Grazie a un nuovo inventario si è potuto far luce sulla poco nota collezione di disegni messa insieme da Paolo Giordano II, da considerarsi una delle più significative nel panorama romano, proponendo alcune identificazioni dei fogli conservati dal duca tra i quali la grande Veduta della città di Bracciano di Paul Bril, oggi al The Art Institute of Chicago (fig. 6). All’ispirato ingegno del duca Paolo Giordano II, intendente d’arte ed egli stesso dilettante di pittura, si deve riconoscere l’avvio della raccolta grafica. E ci piace immaginare questo nobile e intraprendente personaggio, corpulento e dal volto squisitamente barocco, dialogare dei suoi fogli con Gian Lorenzo Bernini, con il quale condivideva il gusto per la caricatura. |